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paolo

Il racconto di Tiberio. Quando le cavie erano bianche.

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Da parecchio tempo Tiberio, il mio caviotto adottato, era piuttosto scostante e nervoso. Dovete capire che, anche se è con me da quasi un anno, solo recentemente e con una certa fatica sono riuscito ad interpretare a sufficienza i suoi discorsi. Quando gli ho chiesto che cosa non andasse, con mia grande sorpresa mi ha risposto che... era invidioso del suo compagno più anziano, Nerone, che aveva visto un suo racconto pubblicato nel sito Amicacavia (ricorderete forse che Nerone mi ha raccontato la sua storia dell'invenzione del tappeto, che io ho trascritto).

E io: "Ma tu non hai storie da raccontare!" "E chi te lo ha detto?" mi ha risposto Tiberio "Ascolta..."

Ed ecco la sua storia.

Quando le cavie erano bianche.

Credo che tutti sappiamo che le cavie, o porcellini d'india, sono originarie del continente sudamericano, dal Venezuela all'Argentina, ma forse non tutti sanno che una volta le cavie erano bianche, anzi... proprio candide!

Vivendo sulle Ande, dove una soffice coltre di neve spesso copriva la terra, le candide cavie erano difficilmente avvistabili dai predatori, quali gli uccelli da preda e i grandi felini che frequentavano quelle alte montagne. Così esse poterono riprodursi in relativa tranquillità ed essere buone amiche di tutti, anche degli uomini che avevano piacere di vedere questi simpatici animaletti intorno a loro, ospitandoli anche volentieri all'interno delle loro case.

A quel tempo gli uomini amavano tutti gli animali e vivevano nel rispetto della natura che, pur senza concedere agi o lussi superflui, forniva loro tutto quello di cui abbisognavano per il loro sostentamento.

Gli uomini amavano gli animali e la natura anche perchè questo era l'insegnamento del loro dio e creatore, Viracocha.

Viracocha amava così tanto le sue creature che decise di mandare sulla terra il proprio figlio, Inti, in sembianze umane, perchè potesse rendersi meglio conto di come vivessero gli uomini e gli animali. Diede al figlio l'aspetto di un ragazzino, perchè i giovani hanno quella semplicità che consente loro di comprendere al volo le cose, e lo posò proprio nel bel mezzo delle Ande.

Il ragazzo si spostava da un villaggio all'altro, presentandosi come orfano, ed era ovunque accolto con simpatia e affetto. Si fermava quindi  per un certo tempo e osservava come vivevano gli uomini e quale rapporto avessero con gli animali e la Natura. Per ricambiare l'ospitalità si prestava a fare commissioni e piccoli lavori per gli abitanti del villaggio.

Un giorno, dopo aver a lungo camminato, giunse al villaggio di Ollantaytambo, e si sedette vicino ad un'abitazione. Dopo un certo tempo ne uscì un uomo già di una certa età, che vedendo il ragazzo straniero gli chiese chi fosse, da dove venisse e dove fosse diretto. Inti rispose di essere un orfano che andava errando di paese in paese.

L'uomo, che disse di chiamarsi Yupanqui, chiese a Inti cosa sapesse fare, ed egli rispose  che ricambiava l'ospitalità della buona gente facendo per essa tutti i lavori che gli erano richiesti.

Allora Yupanqui, che non aveva figli, gli disse che avrebbe potuto fermarsi in casa sua e che, se avesse voluto, sarebbe stato per lui come un padre e gli avrebbe insegnato un mestiere. "E quale è il tuo lavoro?" chiese Inti "Tingere e colorare" rispose con fierezza Yupanqui "in scarlatto, verde, azzurro, porpora, giallo, marrone, nero, e altre tinte intermedie. Tutti gli abiti che mi sono affidati io li tingo in questi colori" Inti ne fu ammirato e chiese di poter imparare tale mestiere. "Si, io te lo insegnerò se tu sarai obbediente." e gli mostrò dove erano tutti i colori e la tinozza in cui tingeva i capi di vestiario che gli venivano affidati.

"Ora io devo andare al villaggio vicino a raccogliere ciò che deve essere tinto. Tu custodirai la casa, non farai nulla di tua iniziativa, e aspetterai il mio ritorno."

Appena Yupanqui fu andato via Inti entrò nella casa, prese tutti i capi che trovò, li buttò nella tinozza e vi mise dentro un poco di ognuno dei pigmenti coloranti che lì si trovavano. Poi si mise a giocare con gli immancabili e bianchissimi porcellini d'india che razzolavano nella casa e nel cortile.

Quando al termine del giorno Yupanqui fece ritorno a casa trovò Inti tranquillamente intento a giocare con i porcellini e ne fu contento. Ma quando vide che gli abiti da tingere di diversi colori erano stati tutti buttati nella tinozza contenente un liquido dalle sfumature indecifrabili, andò su tutte le furie e si mise a gridare: "Perchè mi hai fatto questo? Ora dovrò rimborsare tutti i capi rovinati! Che male ho fatto per meritare ciò?" E Inti rispose: "Ho solo fatto il lavoro che sarebbe spettato a te!" Ma Yupanqui non capì e afferrato un bastone cercò di colpire il ragazzo, che però scappò a gambe levate fuori dalla casa. Nella foga dell'ira il tintore urtò la tinozza che traboccò, schizzando il colore dappertutto, anche sulle cavie atterrite.

Non avendo potuto acciuffare Inti, Yupanqui ritornò sconsolatamente a casa. Si accinse a recuperare gli abiti dal pentolone e si rese conto che non mancava nulla all'elenco dei capi e constatò che tutti avevano preso colori diversi, secondo la richiesta che gli avevano fatta i proprietari. Allora fu preso da grandissima meraviglia e lodò gli dei e soprattutto Viracocha, creatore del cielo e della terra.

Quasi dimenticavo: i porcellini rimasero irrimediabilmente macchiati di colori diversi, ma dopo il primo momento di disagio scoprirono di essere più divertenti da guardare e più facili da riconoscere tra loro. Ed ebbero dei cuccioli anch'essi colorati, che si diffusero poi in tutto il mondo conosciuto.

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Questo racconto mi è stato ispirato dalle lettura del "Vangelo dell'infanzia armeno", uno dei Vangeli apocrifi, in cui si trova un gustoso ritratto di un Gesù dodicenne apprendista-tintore, al quale ho dedicato un articoletto in un blog.

Affidato da Giuseppe a un certo Israele, tintore di professione, Gesù mette tutti i capi da tingere nella tinozza dell'indaco e vi accende sotto il fuoco. Al ritorno Israele va su tutte le furie e Gesù fugge dalla sua ira. Quando però il tintore recupera gli abiti dal pentolone dell'azzurro, scopre che ognuno di essi risulta tinto esattamente del colore richiesto. Allora si rende conto della divinità del ragazzo e loda Iddio.

Alcune precisazioni a proposito dei nomi usati nel testo.

Nella mitologia degli Incas Viracocha (o Wiraqucha) è realmente la divinità creatrice del sole (il figlio Inti), della luna e delle stelle, il dio che aveva plasmato i primi uomini nell'argilla.

Ollantaytambo è una località del Perù, vicina a Cuzco, teatro nel 1537 di una battaglia tra gli Inca e i Conquistadores guidati da Pizarro.

Yupanqui, infine, è realmente un nome inca, portato anche da un imperatore della cosiddetta "dinastia di Vilcabamba".

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Paolo, non ho parole è una storia meravigliosa e, come ho scritto in mail, queste leggende mi mettono gioia perchè sento tanta verità dentro.

Bravo Paolo o bravo Tiberio?  x-P:D

Ecco credo che bravo sia Tiberio ad aver raccontato la leggenda e bravo a Paolo che ha scritto sulla tastiera usando le 10 dita che Madre Natura ha messo a disposizione dell'uomo  :D a Tiberio con 8 anteriori ci voleva più tempo!!!!  :-DD/f/

:D :D

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